MACHINE SHOP

    La prima occupazione che trovai poche settimane dopo il mio arrivo in America
fu un lavoro
“under the table”, vale a dire in nero, in un’officina meccanica.
Si trattava di un enorme capannone
dove una quarantina di operai
manovravano grandi torni elettronici per produrre parti di acciaio

destinate a industrie aeronautiche e aereospaziali.

Il mio compito era spazzare il pavimento con una
ramazza di rami e occuparmi della pulizia dei bagni.
Non era una cosa difficile o che richiedesse
particolari abilità ma nondimeno era piuttosto impegnativa
perché il lavoro andava svolto in tempo
reale e ognuno di quei
dannati quaranta torni produceva per otto ore ininterrotte lunghi riccioli
 di acciaio che si raccoglievano sul pavimento in lucidi mucchi intricati
nei quali era facile inciampare
e che a questo scopo andavano subito raccolti e gettati in bidoni
che assomigliavano a barili di petrolio,
e forse lo erano davvero.
Loro chiamavano quei riccioli semplicemente “scraps”, cioè avanzi, ma
recentemente ho scoperto che in italiano esiste un termine specifico, sfridi, per indicarli.
 

            L’ambiente non era dei più accoglienti. Perlopiù operai
di mezz’età, rozzi, ignoranti, bigotti e omofobi che non vedevano
di buon occhio un giovane capellone straniero appena arrivato dal vecchio
mondo. Il loro principale divertimento era fare battute sciocche e ritrite,
in genere a carattere sessuale o maschilista,
tipo entrare nel cesso alla turca attiguo a quello che stavo
pulendo e cercare di fare colpo lamentandosi ad alta voce che l’acqua era gelida,
facendo intendere con questo che ce
l’avevano così lungo che quando pisciavano pescava nel foro sul fondo.
Dopo aver sentito ripetere per giorni e giorni quella battuta stupida
ho cominciato a rispondere che io non potevo verificare la
temperatura dell’acqua perché oltre che lungo ce l’avevo così grosso
che non entrava nel foro.
E così era girata la voce che io non mi lasciavo impressionare
tanto facilmente e loro avevano smesso
di fare battute sceme. Nonostante ciò venni rimosso dalla pulizia
dei cessi e mi fu affidato un altro
incarico che consisteva nello smussare gli spigoli taglienti
di decine di piccole maniglie di metallo,
proteggendomi gli occhi dalle schegge con una visiera di plastica
e usando uno strumento simile
a una lunga penna con una punta rotante che bisognava
sfregare lungo le parti affilate dei pezzi da lavorare.
Lo strumento si chiamava deburring gun e a parte il suo utilizzo ufficiale
veniva spesso usato dagli operai più anziani per praticare di nascosto
un forellino appena al di sotto dell’imboccatura
della bibita in lattina di qualche ignara vittima, in modo che,
quando il malcapitato cercava di bere,
gran parte del contenuto della lattina gli colava sul mento e sul collo.

La prima volta naturalmente ci cascai ma continuai
a bere imperterrito come se nulla fosse successo, tappando semplicemente
il forellino con un dito e facendo attenzione in futuro
a non lasciare più la mia lattina incustodita.
Invece, per quanto riguardava gli spigoli da smussare affrontai
il compito con eccessiva serietà e
 facendo appello alla mia personalità creativa e artistica
levigavo i pezzi così a lungo da rendere
gli spigoli lucidi come specchi. Questo però rallentava la produzione
e nel giro di qualche
giorno fui rimandato a spazzare il pavimento e pulire i cessi.


            I pochi operai più o meno della mia età non erano meno ignoranti degli anziani e
quando passavo con la ramazza accanto alla loro postazione
mi rivolgevano qualche rapida domanda,
in genere sull’Europa, di cui per loro l’Italia rappresentava poco più
di una minuscola contea.
Non era insolito che mi chiedessero quanto distava il Vaticano dall’Italia
oppure se da noi c’erano molti ristoranti italiani… e lo intendevano davvero.
Non c’era abbastanza tempo per chiacchierare se non volevo essere
accusato dal capo officina di rubare minuti preziosi
alla produzione, ma mi rendevo conto che in qualche modo
i miei coetanei mi stavano studiando.
 
Conoscevo la mentalità dell’americano medio per aver letto un
sacco di libri sull’argomento e sapevo che,
come per tutti gli ambienti dove molti maschi restano confinati a lungo in
ambienti ristretti, tipo carceri, collegi, seminari ecc.
se non volevo soccombere dovevo
 trovare qualche sistema per conquistare il loro rispetto.
I sistemi non erano poi tanti e
riguardavano in genere forza fisica, abilità negli sport o riuscire
a conquistare quante più ragazze possibile.
Di certo non potevo competere fisicamente con quei ragazzoni muscolosi,
e anche il fatto di essere stato un calciatore più che discreto in Italia
non contava molto in un Paese dove gli sport nazionali erano football americano,
pallacanestro e baseball, tutti giochi che
usavano palle di forme e dimensioni diverse da un pallone da calcio.
Tra l’altro, incidentalmente, il basket era stato inventato proprio a Springfield,
dove addirittura sorgeva un museo dedicato
a quello sport, e questo li faceva sentire tutti importanti come
se avessero scoperto la teoria della relatività.
Quanto alle ragazze, ero arrivato da troppo poco tempo e non avevo ancora
potuto fare incontri non avendo a disposizione un mezzo di trasporto
e vivendo da solo in una casa isolata e lontana da tutto.
A peggiorare le cose la temperatura media di quell’inverno
era una delle più fredde degli ultimi vent’anni,
con punte che scendevano a 25° gradi sottozero, che
con il vento venivano percepiti come meno quaranta, cosa che non
mi permetteva di uscire a piedi e raggiungere posti dove socializzare.
Tuttavia avevo a disposizione altre armi, e decisi di sfruttarle.
Avevo saputo che alcuni di loro giocavano a scacchi e così pensai
di rischiare il tutto per tutto. In fondo non avevo niente da perdere.
Andai da quello che mi sembrava il più simpatico perché l’avevo
visto accendersi una canna durante una pausa nel cortile
adibito a improvvisato campetto da basket e gli dissi che ero disposto
 sfidare a scacchi il più bravo di loro. 


Era un azzardo, ma se mi fosse andata bene sarei stato
rispettato da tutti e guardato con altri occhi.
In fondo non avevo niente da perdere.

Saltò fuori che il più bravo era un certo William, che tutti chiamavamo semplicemente Bill. Aveva un cognome franco-canadese, Leclair, il che lo faceva sentire
autorizzato a definirsi francese anche se non
conosceva una parola di quella lingua.
Ma presto scoprii che quella era una caratteristica tipica di un Paese
che non ha una vera e propria identità nazionale. Basta aver avuto un lontano antenato originario di una nazione Europea
per sentirsi titolare della cittadinanza di quel posto.
E così mi capitò spesso che molti si presentassero
dicendo di essere italiani, mentre in realtà le uniche parole
che conoscevano della nostra lingua
erano “cumpà”, “ammore” e “vafanculo" con una effe sola, che ripetevano
in continuazione, sorridendo e dandosi grande arie internazionali.

           
In ogni caso Bill accettò la sfida, che si tenne un venerdì sera
a casa sua alla presenza di cinque o sei compagni di lavoro
che lui aveva già facilmente battuto.
Inutile dire che la maggior parte dei ragazzi tifavano per me, non tanto
perché avessero messo da parte il loro nazionalismo competitivo fatto
di bandiere americane cucite sui berretti o esposte davanti alla porta di casa,
quanto perché Bill li aveva sconfitti tutti, vantandosene e sfottendoli con battute scurrili,
e ora non aspettavano altro che qualcuno li vendicasse.
Io non ero certamente un Gran Maestro come un certo mio compagno
di liceo ma avevo seguito con interesse la sfida tra Fisher e Spassky,
analizzando alcune partite e imparando abbastanza bene gli sviluppi
di qualche apertura che potevano mettere un giocatore in una posizione
iniziale di relativo vantaggio. Dopodiché stava a te giocartela, e se avevi un po’
di fortuna e imbroccavi una o due mosse giuste potevi
anche salvare la pelle.
Quella sera la fortuna era dalla mia e vinsi facilmente le prime due partite.
Persi la terza, ma ormai mi ero conquistato i favori del piccolo pubblico
e con un po’ di fatica portai a casa anche la quarta, assicurandomi l’incontro
al meglio delle tre partite su cinque.

Dopo quella sera io e Bill diventammo grandi amici e
cominciammo a giocare sempre più spesso.
Per la maggior parte delle volte la vittoria toccava a me,
e in questo ero anche aiutato dal fatto che le sfide erano accompagnate da
continui passaggi di canne e innumerevoli birre, cosa che con
il trascorrere delle ore rendeva contendenti
e pubblico progressivamente sempre meno lucidi. Io però avevo dalla mia il fatto che
a quel tempo ero ancora completamente astemio
(condizione che non riuscii a mantenere a lungo se non volevo che tutti
mi chiedessero se ero ammalato) e anche se fumavo erba
in abbondanza la circostanza di non avere nemmeno un goccio di alcool
nelle vene mi poneva in una posizione
di relativo vantaggio.

Bill non era un cattivo giocatore, ma le sue armi tipiche erano due o tre tranelli
in cui un avversario alle prime armi poteva cadere facilmente, perdendo
anche pezzi importanti o addirittura la Regina, che lui si accaniva ad attaccare
al punto da sguarnire le proprie difese e lasciare scoperto il Re
 a rischio della sconfitta. E quindi, una volta scoperti quei
trucchetti era facile evitarli o persino sfruttarli a proprio vantaggio.
Oltre a questo, Bill ignorava alcune regole fondamentali del gioco
e commetteva infrazioni grossolane, tipo avanzare due pedoni contemporaneamente di una casella a inizio partita, che ogni volta ero costretto a fargli notare
spiegandogli dove sbagliava e invitandolo a ritirare la mossa e rimettere i pezzi al loro posto. 


In genere lui accettava le mie spiegazioni ma in una particolare
occasione si impuntò, sentendosi assolutamente convinto di essere nel giusto.
Oggetto del contendere era la regola della “presa al passo”,
secondo cui quando un pedone alla prima mossa avanza
di
due caselle e si ferma nel riquadro attiguo
a un pedone di colore opposto, l’avversario può decidere
o meno di catturarlo mentre gli passa accanto,
 posizionando il suo pedone nella casella dove
l’altro si sarebbe fermato se si fosse mosso
di un passo solo.
Una cosa complicata da spiegare ma di semplicissima e automatica attuazione,
più o meno come la storiella del millepiedi che riesce a camminare
solamente se non si sofferma a pensare
con quale piede partire
o del calabrone che vola anche se il suo peso
e le dimensioni delle ali non
lo consentirebbero, ma riesce a farlo perché non lo sa.

Questa opzione di cattura, tuttavia,
 può essere esercitata dall’avversario solo alla mossa successiva anziché più tardi durante
l’incontro come invece sosteneva Bill.
La diatriba andò avanti per diversi minuti senza che il piccolo
pubblico di amici fosse in grado di dirimerla.
Dal canto mio non avevo il minimo dubbio di essere
nel giusto e così, per evitare di trascorrere l’intera serata discutendo,
 proposi a Bill di fare una scommessa. Avremmo consultato
il regolamento ufficiale del gioco degli scacchi
e chi aveva ragione si sarebbe intascato venti dollari a spese dell’altro.
Per recuperare un regolamento fu necessario recarsi alla biblioteca comunale,
dove un’anziana signora con il colletto bianco cucito all’uncinetto
e i capelli quasi blu come si vedono solo
nei vecchi film americani ci squadrò per un attimo, sorpresa che
due ragazzi vestiti come taglialegna fossero interessati
a un gioco di intelligenza come gli scacchi.

In ogni caso scomparve dietro una tenda polverosa e dopo qualche minuto
tornò con un libretto intonso (probabilmente mai aperto),
chiedendoci di firmare un registro per poterlo portare a casa,
a patto di restituirlo entro una settimana.
 Questo non fu necessario perché mi bastò sfogliare alcune pagine
del libretto per trovare la regola
in questione e mostrarla a Bill con un sorrisetto di scherno e soddisfazione.

A questo punto si trattava di riscuotere i venti dollari della scommessa,
che tuttavia decisi di condonare a Bill purché fosse
disposto a girare per tutta l’officina con un cartello al collo
che dichiarava a grandi lettere la sua ignoranza. 
Lui accettò immediatamente, sia perché venti dollari significavano
tre sixpack di Budweiser o comunque altre forme di attività ricreative,
ma soprattutto perché lo assicurai che la cosa avrebbe avuto un carattere
goliardico e per nulla offensivo.

E accadde proprio così, con lo sconfitto che passeggiò tra un tornio
e l’altro ridendo e tenendomi sottobraccio.

Più di vent’anni dopo, quando ormai non vivevo più a Springfield da tempo,
ricevetti una busta con un biglietto che conservo ancora.
Era firmato da William Alfred Leclair (Guielmo, in un’approssimata traduzione
 italiana del suo nome), the Ignorant American,
e mi ricordava scherzosamente quel buffo episodio.


MACHINE SHOP TWO

La notizia del mio successo scacchistico arrivò presto all’orecchio
del titolare della ditta, che tuttavia, invece
di prendersela con me per i minuti di lavorazione che avevo fatto
perdere ai suoi operai durante la sfilata
tra i torni elettronici, trovò il modo di sfruttare la cosa a proprio vantaggio.

Uno dei problemi che lo assillavano era la presenza costante
nel capannone di un ispettore dell’importante ditta aerospaziale
della vicina città di Hartford, in Connecticut, con cui aveva concluso un vantaggioso
contratto per la fornitura di migliaia di pezzi,
comprese le maniglie a cui ho accennato in precedenza.
Non farò il nome di questa ditta, ma con i dati che ho indicato
non dovrebbe essere troppo difficile individuarla (comincia con Pratt e finisce con Whitney).
Per un’espressa clausola dell’accordo questa importante azienda
aerospaziale aveva il diritto di mantenere
nei locali della nostra officina un proprio rappresentante fisso,
con il compito di controllare tutte le fasi
della lavorazione dei vari pezzi commissionati (non soltanto maniglie,
ma anche importanti parti di motori per aerei),
e a questo proposito l’ispettore aveva a sua disposizione un piccolo ufficio
ricavato in uno dei ripostigli altrimenti adibiti a
deposito di strumenti di lavoro. Questi era un canadese basso e grassoccio,
piuttosto stempiato malgrado l’età non eccessivamente avanzata e con la fama
di essere particolarmente pignolo,
al punto da indugiare per ore nel controllo di ogni minimo
dettaglio della lavorazione, giungendo
a volte persino a soffermarsi a contestare il modo in cui venivano
confezionate le casse di spedizione,
e questo a tutto svantaggio della velocità di produzione dell’officina
e quindi dei  profitti.
Tuttavia, anche il canadese era un essere umano e come tale aveva alcuni punti deboli,
il primo dei quali era stato individuato durante un succulento
pranzo di lavoro offerto
dal nostro titolare (ecco il secondo punto debole dell’ispettore),
per essere una discreta propensione verso il genere femminile.

            E cosi, molto spesso il canadese trascorreva interi pomeriggi intrattenendosi con qualche escort messa a disposizione dal titolare,
non tanto come forma di corruzione, severamente proibita dalla legge,
quanto allo scopo di interrompere per qualche ora le attività di verifica
dell’ispettore e consentire uno svolgimento più rapido delle varie fasi di lavorazione e spedizione delle merci.

La terza passione dell’ispettore era il gioco degli scacchi.

         E poiché un’ora del mio lavoro con la ramazza in mano costava 
molto meno dei servizi di una escort, cominciai a essere pagato il doppio
del mio normale salario per tutto
il tempo in cui riuscivo a tenere occupato il canadese  di fronte a una scacchiera.
Non era importante che vincessi o perdessi, quello che contava
era che le  sfide durassero il più a lungo possibile.

Cosa che tornava perfettamente bene anche a me.